La transumanza e la vita pastorale nella letteratura e nell’arte grafica dell’Abruzzo

Post Ivana Fiordigigli

L'argomento di attualità, che ci ha portato a citare la transumanza e il pastore, riguarda semplicemente la creazione di un piccolo ciondolo, un piccolo gioiello, , che raffigura una pecora e che a livello simbolico rappresenterà un aspetto culturale-valoriale-esperenziale della regione Abruzzo. 

E' un simbolo che richiama la dura e concreta realtà  pastorale, sviluppatasi per secoli e secoli sullo sfondo delle alte montagne abruzzesi. Sabato ho riportato la poesia molto conosciuta e che affresca nei suoi versi le scene della transumanza dei pastori:  "Settembre andiamo" di Gabriele D'Annunzio.

Una lettura critica con una punta polemica dà Giancaterino Gualtieri del Vate e dei suoi versi, nei quali l'aura retorica sembra soffocare la dura realtà esistenziale, ridotta a stereotipo:
 "Non amo la poesia di D'Annunzio, che mi sembra solo esercizio verbale del tutto scollegato dalla realtà dei fatti e dei protagonisti di quella triste vita." 
Comunque spesso nella letteratura e nelle varie forme ed espressioni artistiche la realtà viene sublimata o rischia di apparirci attraverso vari filtri interpretativi.

Leggiamo direttamente la testimonianza che ci ha inviato.



La transumanza e la vita pastorale nella letteratura e nell’arte grafica dell’Abruzzo.

di Giancaterino Gualtieri

(Lo scritto fa parte di un suo intervento di relazione, tenuto di recente presso l'Università della Terza Età dell'Aquila)


Una lenta composta processione di pecore e pastori si snoda lungo le strade di erba dell’Abruzzo montano verso il mare. Uomini ed animali pianamente, senza fretta, come si andasse verso una meta agognata, gioiosamente. 

E questo lo stereotipo fissato nella mente di buona parte delle persone che hanno studiato o letto la poesia di Gabriele D’Annunzio.

Gioiosamente, con quel verso finale che vorrebbe esprimere il rammarico e forse l’invidia di non poter condividere con i pastori quella vita idilliaca:


Settembre, andiamo. E' tempo di migrare ...

                                         … Ah, perché non son io co' miei pastori?


E con la poesia dell’Abruzzese si realizza la più grande mistificazione della triste, tristissima vita del pastore abruzzese.

Se non si conosce, anche solo per sentito dire, quale era stata ed era la violenza che bisognava fare a sé stessi e far fare ai propri cari per sopravvivere in un ambiente al limite della sopravvivenza come pastori (e forse meno come contadini), la poesia edulcorata di D’Annunzio è una bella poesia, da far imparare a memoria allo studentello milanese già alle elementari, ma che si sarebbe dovuta bandire dai sillabari e dalle antologie degli studenti abruzzesi e dei paesi dove la dura realtà del vivere non concedeva sconti.

Ipocrisia pura quell’ultimo verso. Anzi offesa pura a chi quella triste vita da bambino poi a dieci anni avrebbe dovuto vivere. Si dirà: ma il poeta è sopra la realtà e interpreta col sentimento e l’afflato poetico. Preferisco Francesco Giuliani poeta.

Altri potrebbero dire che erano i tempi a guidare il sentimento dell’arte: un’epoca di stantio romanticismo. E a riprova potrebbero portare Francesco Paolo Michetti e la sua serie di “Pastorelle”, serene, paffutelle, con vistoso monile al collo o le braccia colme di frutti nel ritorno a casa dopo una giornata passata a pascolare qualche mansueta pecorella.

Michetti e D’Annunzio condividevamo molte cose: l’arte e il “Conventino”.

Ma se D’Annunzio conosceva poco l’Abruzzo, visto che la sua formazione era stata plasmata al “Cicognini” di Prato e si era perfezionata nel delibare le grazie delle varie contessine nei salotti romani (quando aveva voluto scrivere dell’Abruzzo e ambientare le sue tragedie in Abruzzo aveva dovuto far ricorso a quanto il suo amico Antonio De Nino, archeologo e antropologo fondamentale per conoscere l’Abruzzo e la sua gente, andava raccogliendo in quel tempo), Michetti, di Tocco da Casauria, l’Abruzzo lo conosceva.

E sapeva che quelle pastorelle così composte e serene erano solo nella sua arte. 

Una pastorella, così bella (e anche meno bella) come lui la dipingeva, sola sui pascoli, sarebbe stata violentata nel giro di qualche giorno. E a poco sarebbe servito farsi accompagnare da qualche fratellino minore o da qualche altra pastorella. Ad essere violentate sarebbero state in due.



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E lo sapeva bene Michetti e sapeva rappresentare la truce bestiale violenza del maschio abruzzese. Basta vedere il suo quadro terribile e inquietante dove rappresenta Mila di Codro, la protagonista della “Figlia di Iorio” dell’amico Gabriele, che, sullo sfondo di una Maiella innevata e glaciale, cerca rapidamente di passare oltre, seguita dallo sguardo allupato degli uomini che, stravaccati o seduti, la concupiscono, velandosi la testa con l’ampio scialle rosso allargato a nascondere il viso agli uomini.



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E anche pensare alla vicenda terrena agiografica di Gemma, la santa assai venerata a Goriano Sicoli, in provincia dell’Aquila. Rimasta orfana in un paese non suo, per vivere diventa pastorella.

Mentre pascola il gregge viene vista e subito concupita dal Conte di Celano, nel cui territorio andava a pascolare. Resiste con tutte le sue forze alle profferte amorose e alla violenza del Conte.

Meravigliato da tanta fermezza e convertito al bene, così racconta l’agiografia della santa, lui che era abituato ad avere tutte le donne che voleva e che non gli facevano certo resistenza (era pensiero comune anche nella letteratura giocosa ed amorosa del medioevo che le pastorelle fossero assai  generose dei loro favori), le fa costruire una cella di lato alla chiesa (per permetterle di assistere alla messa da una finestrella) dove la santa rimane a vivere vergine e penitente per molti anni fino alla morte.


E sul tema della transumanza molto hanno detto nell’arte i Brindisi padre e figlio, Fedele e il più famoso figlio Remo.

-Agli inizi degli anni sessanta Federico Quatrini, in un’intervista esclusiva su “Panorama Pozzi”, scriveva: “… Pastori erano i suoi avi; nelle lunghe ore di muta attesa, mentre il sole accendeva l’alba, e compiva il suo arco quotidiano dall’adriatica al tirreno, qualcuno di essi si fece scultore di legno; è un passatempo comune, o per lo meno, frequente a questi uomini immersi nei lunghi silenzi montani interrotti solo dai belati delle pecore o lacerati dal tuono, ma uno di essi, un Brindisi (“Fedele”) per l’appunto scese al piano, certo pel tratturo antico e non risalì più con le greggi: rimase scultore e si applicò all’insegnamento…”.

“… Ereditando dal padre Fedele nella prima metà del secolo alle nostre spalle… Remo Brindisi è stato anche il più fedele testimone (e allo stesso tempo messaggero nel mondo) degli aspetti umani e culturali del mondo agricolo-pastorale abruzzese, intrecciando e permeando, spesso, nella propria opera gli aspetti dei grandi avvenimenti storico politici del tempo…”. (1)


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Le molteplici attestazioni figurative- ricorrenti in tutta la carriera- originano dalla drammatica condizione sociale del Mezzogiorno e dell’Abruzzo (specie negli anni ’30-50); così: nelle “Maternità” ai “Pastori” nelle “Pastorali”, nei “Paesaggi abruzzesi”. (1)


(1) E. DI CARLO, Remo Brindisi e la transumanza, Abruzzo AZ60, Periodico del Circolo Culturale     

       Polivalente SpazioArte, Nr. 1/2005   



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E per finire: nel 2004 le Poste Italiane hanno emesso un foglietto sulla “Transumanza”. Il bollo del primo giorno di emissione riporta: Tratturo Magno- Transumanza.


Italia 2004 - foglietto - Transumanza attraverso il Tratturo Magno


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