SANTARELLO di Giacomo Sansoni


Post Ivana F.
Ieri lunedì due agosto ho ricevuto da Giacomo Sansoni la narrazione di

 "Santarello" con queste parole: "invio un piccolo ricordo di un'altra persona

 del microcosmo di Assergi".  Ma conviene leggere direttamente il racconto

 di Giacomo.


S A N T A R E L L O


Sante, Santino, Santarello, in prigioniero vernacolo: Santareglie, figlio dei luoghi, del tempo e delle libertà schiave o libere schiavitù. Presumibile, verosimile, forse reale l’esordio a questa incarnazione nelle periferiche latitudini della nostra galassia cosmologica, che ha zeppe storiche per sostenere l’artificio relativistico delle giustificabilità fisiche delle parole. Artificiando con dolo la povera facondia di Santarello, che le verbalizzazioni e i costrutti argomentativi li deliberava con codificazioni, oseremo dire con stretta cavezza matematica, quando invece, molto spesso, non le sviscerava con gesticolazioni e vocalizzazioni sgangherate, iperbolando in auto scherno lo scherno che presumeva di indulgere, o appropriarsi e uniformarsi a quello malcelato, per dominio di continenza, da tutti. Doniamogli un basico determinismo, forse parole apocrife e apriamo lo stortore alle sue parole, appropriandoci, senza profanazione, della sua narrazione e le contiguità della sua incarnazione, tra la deriva glaciale delle pietre, il rimario frettoloso delle acque e la costipata urgenza delle albe e tramonti al cospetto della dominanza dei monti.


I ricordi ci uccidono. Senza memoria saremmo immortali

“Il Malpensante” G. Bufalino








AAAAAhhhhhhh…AAAAhhhhh…Bianchina…AAAAhhhhhh! Sono nato nell'anno, che di neve ne fece così tanta che, come mi raccontava la mia povera mamma, io uscii al mondo come un cucciolo di talpa o di ghiro, quando, a primavera si sciolse la neve. Fortuna che quell’inverno rimasi dentro la grotta calda di mia madre. Mamma e papà mi dettero la vita e per devozione nome Santo, e per tenermi più meglio dentro il loro amore, mi chiamavano Santareglie, cioè Santarello, ed era poco tempo che ero nato, tre o quattro estati e primavere, basta dire, e quella età è poca o è tanta, bisogna vedere da dove si guarda, e mia madre e mio padre guardavano bene, anche se quello che dovevano guardare non era quasi mai bello.

Il loro amore non saziava la mia fame, che ce ne avevo tanta di fame e ce lo ancora, l’unica cosa che ce ne o tanta…bhe adesso ce ne o tanta, cioè tante anche di parole, forse di più, ora, ringraziando Dio e amen. E la fame, cacciando il battesimo, non a ragione, che la testa, se c’è dentro essa la ragione, come dicono, sta da un’altra parte, anzi da tutte le parti, basta dire, e non ci sta ragione per poterla capire la fame, che lo o visto anche dentro gli animali macellati per le bocche più piene di denti, che non ci stava comunicazione tra la testa e la pancia, però ai voglia a dire, con la testa che la fame non c’e, non ci sono cristi. 

A dire il vero crescevo crescevo, bhe mica poi tanto, crescevano gli anni e la fame e, pure la fame degli anni e la fame mi azzannava non solo la pancia ma pure la testa, che allora io mi penso, da per me, che deve esserci un passaggio che gielo dice alla testa che la pancia non sta bene. M’azzannava, m’azzannava e io però sentivo tutto, la fame e i rimproveri di tutti che dicevano che di me se ne faceva poco, ch’erano piccole e sgangherate le mie fatiche, per me invece erano montagne, e la sera mi crollavano addosso tutte, e d’inverno con tutta la neve, che non sembra ma pesa e poi si sa gela e amen. 

Un giorno poi, basta dire, quando ci pensavo un pò meno alla fame, che eravamo tutti vicino al fuoco, una sera, cioè mio padre, mia madre, le mie sorelle e io, prima della notte, di quelle notti che sono povere, fredde dure e acide e io avevo quel giorno, anzi quella sera dentro la bocca l’acquetta della speranza, perché bolliva sul fuoco, forse per l’aiuto dell’inverno, una cottora di erbe, di cicoria e pure un poco di ceci, orzo e segale, che mi smaniava il cuore, tanto che per la smania e anche per il freddo mi ci avvicinai troppo al fuoco che così l’acqua e i tizzoni mi morsero, mi azzannarono come lupi inferociti la faccia, che anche il fuoco per fame mangiava gli uomini e mangiò me quel giorno, e l'aqua non spense i tizzoni e io non o saputo più niente di quello che mi successe perché come un amen me ne ero andato a vedere se le porte dell’altro mondo sono dorate o di legno come quelle di sor Checco il falegname del paese e pure chi tiene le chiavi. 

La morte però mi sputò perché anch’essa non sapeva che farsene di me, però qualcosa mi prese, m’arrugò la pelle e mi fece, nel viso, già vecchio a quattro o cinque estati della mia vita, però più inverni che estati e con il pensiero cattivo, basta dire, che un giorno, per sete mi potevo specchiare dentro una polla d’acqua o un pozzo o negli occhi di qualcuno non mi cecò la luce degli occhi per un miracolo feroce, invece m’attorcigliò e legò la lingua con torte potenti, come quelle che mio padre attortava per legarci le fascine degli zeppi al bosco, ed io non parlai più e non volli nemmeno sentire, che tanto sentivo solo la fame e il dolore e più tanto la vergogna, che non guardavo più i cristiani, e avevo più paura ancora di quando avevo meno anni, che invece mi crescevano, gli anni, la paura e la vergogna e il dolore. e mia madre era invecchiata e diventata nera come i carboni del fuoco. 

Con gli anni, che non spianavano la pelle e le rugosità della vita, iniziò a spuntare qualche malerba tra i sassi della mia faccia, ed erano ginestre magre e senza fiori e stecchi secchi, che capivo lo scherno anche da chi non mi scherniva e mi era duro amare il mondo, eppure volevo amarlo nonostante tutto ma amavo di più gli animali che mi vedevano e però non mi schernivano, e volevo amarlo il mondo perché se mi abbruttivo pure dentro cera solo la terra che mi poteva nascondere e riprendermi, e invece io volevo volare come le aquile e i falchi che amavo per le ali e il volo. 

Ora mi riposo a questo sole d’autunno, che è passata la mia primavera e il sole mi bacia il viso e non si schifa della mia faccia, il sole perché forse è troppo lontano o troppo buono o non sa o non gliene importa niente di me e della mia faccia e degli uomini, e quello che fa, lo fa perché lo deve fare, perché è nella sua natura. Il sole un giorno, che avevo più anni ed era estate, non me lo scorderò mai, bruciò nel mio cuore, che quel giorno mi sembra che era nato proprio per me e questo fu un miracolo, il mio miracolo dentro, che tutta la mia vita è un miracolo e anche dolore, e però non ce’ miracolo se non ce’ dolore, come dicono in chiesa che non ce’ redenzione se non ce’ peccato, ma io non so se avevo peccato nella mia triste vita, comunque la redenzione arrivò e il miracolo anche, o forse il miracolo della redenzione, o come vorrei capire tutte queste cose. Però io non capii perché e come fu che riparlai, certo fu un miracolo, e se ci fu il miracolo dovevo averlo meritato, perché di storpi, di muti, di sordi ce ne sono come i sassi di questa terra, dovevo averlo meritato o devo meritarlo, e per meritarlo devo usare certo le parole, ero una pietruzza di questo mondo che doveva smettere di rotolare e doveva cominciare a parlare e a dire che quando non si può parlare si deve pur amare di non potere parlare, e quando si può parlare, dire della gioia del parlare e anche di quando non si può parlare. 

Quando mi rovinò il fiume nella bocca e si sgelò la lingua, le prime parole schiamazzarono di sorpresa e di felicità e di giubilo e non so dov’erano nascoste, che io non sapevo di averne tante e tutte belle e sonanti e profumate di meraviglia e meravigliate, assolate e calde, che il sole da qualche pertugio cera sicuramente migrato e le aveva colorate dei colori dell'arcobaleno. Prima che non parlavo non mi davo retta nemmeno da per me stesso e mi trovavo spesso sbieco e storto dentro di me. Ora ogni parola è ed è una cosa e per ogni cosa ce’ una parola, non che prima non sapevo farmi intendere e che mi coltivavo dentro una preghiera, ma ora la bocca mi restituisce ogni preghiera e ogni regalo che le o fatto e le faccio e, la terra mi sembra più nera e fertile e chiamarla terra è già seminarla, di speranze e di parole, e le piante, piante e ogni pianta ha il suo nome e un carattere e il suo fiore e gli animali mi scoprivano nella voce il carattere e l’amore e i pensieri. Le cose prendono carattere con le parole, come quando lavoro la terra e essa cambia il colore delle mie mani, e mi pare che con le parole mi si articolano più docili le braccia e le gambe e la fatica m’asseta di meno e la notte è solo notte e non un rancore e questo fiume che mi sgorga da dentro dalle sorgenti, da dove non so mi travolge, travolge e brilla al sole e canta e le parole che schiamazzano si rincorrono gorgogliano e premono come un fiume che mi sazia. 

Quando non parlavo, non sentivo, che sentire, basta dire, più spesso m’era dolore, che mi pareva, con rispetto, come, mangiare mangiare, se potevo mai farlo, mangiare mangiare e non potere, sempre con rispetto, cacare. Mi sono accorto che le parole sono anche spigolose, ripide e definitive e le devi rispettare che, quelli del potere, le mettono anche sopra i libbri e sono leggi, e nei libri le accatastano una sopra l’altra, con pazienza e interesse come cataste di legna ordinate e pronte, le cataste però possono ruzzicare e travolgere, mutilando i poveracci che ci capitano sotto. Forse per questo che le uso con il livello e il piombo e dico le cose che sono e schiamazzo con le braccia e la gambe, che sono state sempre libere, come a volermi prendere in giro, per come tutti possono prendermi in giro. 

AAAhhh Arrillaaaaa Arrilllaaa Bianchina, quelli che prima non mi parlavano e se mi guardavano non mi vedevano, o non mi volevano vedere, tanto da immaginarsi come uno spirito che non si vede, e invece adesso mi vedono e mi vedono tanto bene che qualcuno cambia pure, basta dire, strada. Pure questo è un miracolo ad avere la parola e non essere muti come una farfalla e sentirsi quasi le sue ali.”

Indifendibilmente colpevole l’estensore, per queste parole, come detto, apocrife, per molti irriconoscibili nella bocca di Santarello, eppure pregne della sua acquisita libertà, della sua peculiarità coscienziale. Uomo libero Santareglie, liberato dentro la catorbia delle sue prigionie. Un poeta a suo modo, che non si faceva scherno di schernirsi e schernire gli schermibili. Che aveva dimestichezza con gli stertori, i loro rantoli, le risorgenze, gli abbotti pigri e le acque cristalline; Il quale andava al prato a piedi la valle, con una pietra di sapone fatto in casa, e in quei stertori si lavava, tornando a casa con la chioma riccioluta, come un beduino, che sempre mi ha suscitato la povera libertà, o libera povertà mutuata dai versi della poesia: 


"I fiumi" di Ungaretti

“ Stamani mi sono disteso

in un’urna d’acqua

e come una reliquia

ho riposato


il fiume scorrendo

mi levigava

come un suo sasso


Ho tirato su

le mie quattr’ossa

e me ne sono andato

come un acrobata

sull’acqua


Mi sono accoccolato

vicino ai miei panni

sudici…

e come un beduino

mi sono chinato a ricevere

Il sole


Questo è il “Raiale”

e qui meglio

mi sono riconosciuto

una docile fibra

dell’universo


Il mio supplizio

è quando

non mi credo

in armonia


Ma quelle occulte

Mani

che m’intridono

mi regalano

la rara

felicità…



Il sapone usato era ancora quello fatto bollendo alla cottora il grasso rancido, con la soda e la pece, usando l’empirismo tramandato, misconoscendo le leggi della chimica, ovvero il metodo dell’idrolisi basica degli esteri, che è carico di valenza di contrappasso. Ovvero che il grasso, che è lo sporco ante litteram più ostinato, si pulisce col sapone fatto dallo stesso grasso. Simile scioglie simile. Dolore scioglie dolore.

Anche l’aspetto di Santarello assonava con il beduino ungarettiano, così come la sua complessione magra e scheletrica, nonché l’acquiescenza e abbandono nelle mani pietose della natura.

La madre, come tutte le madri che temono i figli fragili, lo chiamava perennemente vicino a se, con un gorgoglìo disperato, non letterariamente onomatopeico ma veramente reale, di gallinaccio, con lo stesso borbottio, ribollio, chioccolio vagamente sinusoidale.

“Santareglie! Santare’! Au Santare’!

Non gli difettava, anzi ne assecondava la diaframmatica percussione tonale, la sua estrema postura piegata su sé stessa, proprio come un bipede, con la testa arcuata a terra. Il padre era soprannominato, non si sa perché, maresciallo, benché non ne avesse la presunta possanza o alterigia, né presunzione, arroganza, boria o tracotanza.

Per tornare alla sua sintassi discorsiva di matrice matematica, in forma di aneddoto, quale pegno della sua ingenua giocosa trasparente cristallinità, si ricorda un episodio, perpetrato dalle cronache umoristiche vernacolari. Uno stringato dialogo intercorso tra il genitore di una ragazza del circondario, che aveva svegliato il suo cuore e Santarello. Evidentemente epilogo, dopo aver discettato a lungo sulle manovre procedurali di accasamento, che avevano evidenziato titubanze da parte del genitore della ragazza e forse arenatesi in una pozzanghera di indeterminazione, alfine, dopo tante chiacchiere, Santareglie così si trovò a pressare il padre della ragazza:

Santarello: Allora quattro e quattr’otto me la dà figlieta?

Padre: otto e otto sedici non te la do

Santarello: sedici e sedici trentadù, pigliatevela ‘nterculo tutti e du”

Traduzione:
Santarello: Allora quattro e quattr’otto me la dai tua figlia?
Padre: otto e otto sedici non te la do
Santarello: sedici più sedici trentadue, pigliatevela ‘nel culo tutti e due”

Ad additare a scemo del villaggio Santarello, affinchè così si disarticolasse il tramare correo del destino di tutti, un’altra storiella, per la quale è a tutti concesso il filo d’arianna per uscire dal labirinto scontato dell’assonanza del luogo comune, doglianza=scemaggine, è quella che trova Santareglie prigioniero dentro le mura di una piccola casetta che stava costruendo, per non averne previsto l’apertura della porta.


Il destino che invece non è ingenuo, che ha additività matematiche non remissive, negli anni della sua mezza età lo cancellò dal paesaggio umano e domestico di tutti, per un intorbidamento dei precipitati della sua bolla di vetro, come quelle delle miniature, dove floccula la neve. Una insufficienza renale, manifestatasi qualche anno prima, figliastra probabilmente anche dell’aggravio purificativo e della compromessa clearances, minata dal fuoco in tenera età, lo resero schiavo di una schiavitù incomprensibile per lui, che non si avvalse delle promissioni purgative e offerenti delle acque del fiume, da cui non si tenne mai a distanza. Oltraggiosamente artificiosa e schavizzante oltre la sua bolla di familiarità, la dialisi. Distante l’Aquila, per le sue volontà e le ruote del suo trotter, motociclo di spartana potenza, a cui si poteva addebitare solo la soma delle sue, non torbide libertà. Stanco, irrispettoso al riguardo dei protocolli e scansioni settimanali delle dialisi, dopo poco tempo di questi obbligati insospettabili traccheggi sanitari impostigli, abdicò e non valse la sollecitazione di alcuno o dell’altro angelo, perito posteriormente, per un male di gravità: Luigi Sacco che non poche volte se lo caricò in macchina e, senza la sua volontà lo portò a collegarsi agli artifici di un mondo che non avrebbe mai sospettato e non avrebbe voluto, così come non volle, contemplare e intanto, entro la sua sfera di cristallo, la neve ormai diventava ghiaccio e il suo microcosmo, urna.

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