Transumanza ed emigrazione di Goffredo Palmerini
Si riporta, a seguire, un interessante e documentato articolo sulla transumanza e sulla emigrazione di Goffredo Palmerini pubblicato sul "‘N.Y. Times" del 18 luglio 2021, anticipando gli eventi che ci saranno il 31 luglio e il primo agosto a Caporciano, presso la chiesa di Santa Maria dei Centurelli. iSono un omaggio a Mario Daniele, imprenditore di Castelnuovo emigrato prima in Canada, poi negli Stati Uniti, protagonista del libro a cura di Goffredo Palmerini "Mario Daniele, il sogno americano".
STORIA & TURISMO \ Gli articoli del ‘N.Y. Times’
Transumanza ed emigrazione
di Goffredo Palmerini
MAGAZINE gopalmer48@gmail.com
Il “Tratturo magno” e l’altopiano Navelli,
ovvero quando le greggi andavano a svernare dall’Abruzzo
alla Puglia, alla Capitanata foggese.
UN TEMPO, prima che la grande emigra-
zione prosciugasse di braccia queste ari-
de terre dell’Abruzzo montano, l’altipia-
no che si snoda dai resti dall’antica città
vestina di Peltuinum fino al magnifico borgo di
Navelli, era un giardino di mandorli in fiore, a prima-
vera. Perle bianche tenuamente tendenti al rosa
ingioiellavano i campi distesi sull’acrocoro. E più
ancora gli acclivi che nei due lati ne erano cornice,
trapuntati di borghi dalle splendide architetture e
vestigia d’antichi castelli e fortezze sulle sommità
dei colli, a presidio di quelle comunità. Sulla piana,
in sequenza, magnifiche chiese di pietra, le facciate
squadrate, indorate dal sole. Correva, lungo l’alti-
piano dove da secoli si coltiva l’oro rosso più buo-
no del mondo, l’antico “tratturo magno”, la grande
via della transumanza. Era largo oltre centodieci
metri.
Prendeva avvio dai contrafforti amiternini, ter-
ra sabina già patria dello storico Caio Crispo Sallu-
stio, superando di lato il colle dove nel 1254 venne
fondata L’Aquila, e si dispiegava come “un erbal
fiume silente” fino alla Puglia, alla Capitanata di
Foggia, dove le greggi dai monti andavano per
otto mesi a svernare. Dunque su quel tratturo, dal-
le terre dei Sabini e dei Vestini - gli antichi popoli
italici di questa parte d’Abruzzo -, per oltre due
millenni e fino a qualche decennio fa, i pastori han-
no scritto storie di fatica, sofferenze, relazioni uma-
ne e commistioni di culture, accompagnando le
loro greggi verso le campagne del Tavoliere pu-
gliese. Vita dura, grama, specie in queste terre sas-
sose dell’Abruzzo interno da cui negli scorsi due
secoli fiumi d’emigranti sono partiti per le Ameri-
che, poi per l’Europa e l’Australia. E con loro sono
partite le braccia, quelle stesse che dalle balze iner-
picate verso l’imponente catena del Gran Sasso da
secoli prima carpivano dai sassi scampoli di terra
da coltivare, per il parco nutrimento di famiglie ric-
che solo di bimbi, o che pascevano le greggi dei
grandi armentari.
La lunga falda che dal tratturo sull’altipiano
arrampicava verso la grande catena montuosa, nel
suo versante meridionale, era territorio dell’antica
Baronia di Carapelle, un ampio dominio feudale
nato a cavallo tra il Duecento e Trecento e com-
prendente i borghi di Carapelle Calvisio, Santo Ste-
fano di Sessanio, Calascio e la sua Rocca, Castel-
vecchio Calvisio, Castel del Monte e Barisciano.
Un territorio florido per la pastorizia, che per quat-
tro mesi nutriva le greggi sui pascoli in quota del
Gran Sasso, per gli altri otto alimentava la transu-
manza verso la Puglia. Decine di migliaia di pecore,
alcune di razza “carfagna”, così pregiate per la loro
particolare lana scura da spingere nel 1579 i Medici
di Firenze ad impiantare una cospicua presenza a
Santo Stefano di Sessanio per controllare in loco la
produzione della lana, poi lavorata in Toscana ed
avviata ai mercati di tutta Europa. Un territorio che,
dopo gli anni del prosciugamento migratorio e del-
l’abbandono, oggi finalmente riparte offrendo me-
raviglie architettoniche, artistiche e ambientali. A
cominciare proprio da Santo Stefano di Sessanio,
entrato nel club dei Borghi più belli d’Italia. Vi si
sale da Barisciano, a Santo Stefano, lungo la strada
che tra un’infinita serpentina di curve giunge fino
a Fonte Vetica e Campo Imperatore, vestibolo delle
grandi cime della catena del Gran Sasso, da Monte
Camicia a Monte Prena, fino a Corno Grande, la
vetta più alta dell’Appennino.
Sulla via per Castel del Monte e Campo Impe-
ratore, Santo Stefano di Sessanio è il primo centro
abitato che s’incontra, a 1250 metri d’altitudine.
Appare quasi d’improvviso su un cocuzzolo, con
la cilindrica torre trecentesca dominante sulla som-
mità, ornata di merlature. Ora Santo Stefano è di-
ventato un caso d’accademia, dopo che l’architet-
to d’origini svedesi Daniele Kihlgren, acquistan-
do vecchie case abbandonate e rimaste immacola-
te negli originali materiali costruttivi, va restauran-
do gran parte del borgo ad albergo diffuso. Kihl-
gren ha cura del recupero certosino dei fabbricati
mantenendone la qualità edilizia originaria, mentre
l’inserimento impiantistico si dissimula senza so-
verchie apparenze. Ne parlano i giornali di tutto il
mondo di Santo Stefano, pagine intere gli ha dedi-
cato il New York Times. E intanto va crescendo un
turismo di qualità che ama il silenzio, la bellezza dei
luoghi, gli straordinari scenari che la natura espo-
ne, la singolarità del borgo con un impianto urba-
no integro da devastanti manomissioni. Santo Ste-
fano di Sessanio sa ben recitare il suo fascino, con
la sobria variabilità delle architetture che mitiga il
parossismo delle abitudini nei grandi centri urbani.
Insomma, tutto concilia verso una ricettività ospi-
tale e tranquilla, in un contesto ambientale che
mozza il fiato.
Le viuzze lastricate s’intrecciano nel borgo, che
dispiega la varietà tipologica delle abitazioni tutte
in pietra calcarea, che solo i secoli hanno colorato,
in un contesto urbano dove tutto si tiene ed è
armonia. Dall ́erta scalinata che costeggia la Chie-
sa di Santa Maria in Ruvo, risalente alla fine del
Duecento, un intrico di budelli s’infila tra le case
fino alla sommità del colle dove s’erge la Torre, con
un percorso a tratti infilato a tunnel sotto i fabbri-
cati. Un singolare sistema costruttivo per proteg-
gersi dalla neve e dai rigori dei venti invernali. Ap-
partengono al dominio dei Medici i loggiati dalla
linea elegante, i portali ad arco con formelle fiorite,
le finestre in pietra finemente lavorate e decorate
da mani esperte, le stupende bifore e le mensole dei
balconi. Sulla porta a sesto acuto, accesso di sud-
est, risalta lo stemma della Signoria di Firenze, qua-
si un’impronta di raffinatezza. Pur in assenza di
mura difensive, il borgo è contornato da un conti-
nuum di costruzioni che rivelano la funzione di
case-mura, evidente dalla rarità di aperture ad ec-
cezione di piccole finestre. Nel borgo s’ammirano
alcune abitazioni quattrocentesche, tra cui la Casa
del Capitano, la Torre risalente al Trecento, chia-
mata impropriamente medicea a retaggio della pre-
senza della Signoria fiorentina, la chiesa di Santo
Stefano Protomartire, edificata tra XIV e XV seco-
lo, monoaula a cinque campate caratterizzata da
un’insolita area presbiterale su cui si aprono le
cappelle e un’abside semicircolare. Interessante
del borgo anche la Chiesa della Madonna del Lago,
del XVII secolo, che sorge subito fuori le mura,
sulle verdi rive d’un minuscolo lago...
Uno dei periodi significativi nel processo di
trasformazione del territorio s’ebbe con il nuovo
assetto creato dai Normanni. Il placito del 779 rife-
risce per quel territorio un’economia di pura sussi-
stenza, un paesaggio dominato da selve sponta-
nee, la resistenza dei monaci alle attività di disbo-
scamento. La riforma dei Normanni creò un nuovo
disegno nel paesaggio, sia a livello difensivo che
sull’economia del luogo. E’ da presumere, infatti,
che a tale periodo risalga l’incastellamento sul ter-
ritorio di Carapelle. Dal Catalogus Baronum s’ap-
prende che Signore delle terre della Baronia di Ca-
rapelle fu Oderisio da Collepietro, che aveva pos-
sedimenti anche nell’altro versante del Gran Sas-
so. Dopo il dominio di Svevi e Angioini, nel 1384 il
tenimento venne assegnato al Conte di Celano.
Solo nella seconda metà del Quattrocento entraro-
no in scena i Piccolomini, che l’ebbero fino al 1579,
i quali infine lo cedettero ai Medici di Firenze, che vi
rimasero fino a metà del Settecento.
Ora, queste terre e questi borghi dell’altipiano,
che a cavallo di due secoli, Ottocento e Novecen-
to, avevano alimentato con migliaia di partenze
l’emigrazione italiana nei paesi d’oltreoceano - Sta-
ti Uniti e America Latina (Brasile, Argentina e Uru-
guay in maggior numero) -, nel secondo dopo-
guerra, con il calo degli allevamenti ovini - dovuto
ad altre opzioni economiche da parte dei ricchi ar-
mentari - e dunque con la crisi della transumanza,
fortemente riprendeva il fenomeno migratorio oltre
alle consuete verso nuove destinazioni nelle Ame-
riche (Canada, Venezuela) e in Australia. Nell’Euro-
pa uscita dalla guerra, in ricostruzione e in forte
sviluppo industriale, il fenomeno interessava so-
prattutto Svizzera, Francia, Belgio, Germania e Gran
Bretagna. Anche le antiche abitudini della transu-
manza, che lungo questa parte di tratturo magno
sull’altipiano avevano consolidato intorno alla bella
chiesa di Santa Maria dei Centurelli la prima stazio-
ne di posta per le greggi, nel frattempo si evolveva-
no scegliendolo come luogo spirituale propiziato-
rio alle partenze per le terre d’emigrazione. Non è
stato un caso la scelta del sito per elevarvi un
monumento all’emigrante, nel 2006. Proprio sul lato
destro prospiciente la chiesa, infatti, ora s’erge la
statua di bronzo realizzata dallo scultore Augusto
Pelliccione, una via di mezzo tra il pastore transu-
mante e appunto l’emigrante.
Nella foto, Santo Stefano di Sessanio
con la sua torre medicea
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