Parente, ricordo di un personaggio - Lab. memoria

 di Giacomo Sansoni





Le api…le api, quante api su questi volenterosi cespugli di biancospino.

Quanta festa su queste nuvole di fiori, che già sanno di miele, prima di essere miele. Api tornate all’istintivo amore per i fiori, forse affrancate, salve, non smarrite come quelle degli stazzi confinati ai margini delle vulnerabilità umane.

Quelle infinocchiate dagli odori subdolamente invescanti delle vernici, dei solventi al toluene, degli xileni, delle benzine dell’artificio abbindolante e frodante degli uomini.

Api chiamate alla celebrazione pronuba, nella inconsapevolezza della sacra fertilità ieratica.

Senza coscienza? Con coscienza più sublimata, partecipe degli equilibri sovrani che tengono il cosmo? …chi potrà dirlo?


Antonio Scarcia, da tutti chiamato Parente - Foto di Aldo Ippoliti



La stessa coscienza di “Parente”, così soprannominato per il suo magro interloquire con tutti, al di là, o più al di qua, oltre i nomi, prima dei nomi, con l’appellativo “paré (parente)”, riconoscendosi con tutti entro la stessa archetipica consanguinea comunione; fervido credente, cieco alle lusinghe del libero arbitrio, puro vedente senza presentimenti di cittadinanza della ragione.

Dio ha messo la ragione nella testa degli uomini per provargli la fede.

Per Parente come non gli occorreva la ragione per provarsi nella fede, non gli occorreva la fede per provarsi nella ragione.

P
arente era congenitamente puro, affrancato da qualsiasi peccato originale, consanguineo e compatente con un dio incarnato nel mondo o un mondo che presta la carne a dio.

Parente sempre libero e liberato da ogni impegno terreno, per l’impegno sovrano ad imbracciare la croce della fede ad ogni processione, ad ogni viatico per i morti e per i vivi, ad ogni vaticinio di campana, messa sacramentale o non, con o senza reliquari, con un reliquario di santini, cristi, madonne, croci calvari medagliette, spillette sacre d’ogni materia, metallo, consistenza ed evanescenza a trafiggere la logora, lisa rattoppata oltre misura, sempiterna giacca, cascante sulle spioventi braccia, minate da una qualche displegia o tetraplegia congenita, giacché anche le gambe mostravano un provato sacrifico posturale e necessitavano, per l’abbrivio, della scomposta articolazione a pendolo delle braccia.

Anche l’altra buccia, quella propria, quella della pelle aveva la consistenza sugherosa di un infierito floema esposto a tutte le strine, venti, diluvi e feroci soline, al pascolo delle pecore.

Ma l’anima era intonsa, vergine, quasi infantile, congenitamente discreta, modesta, umile, schermente, affrancata, donante, sempre prestevole, restitutiva per una nuova processione rincarnante, salva entro il conservativo mare della fede e della grazia, soggetto alla stessa precostituente codominanza della fede alla naturalità e naturalità della fede, così come le patentate proficuità delle api, in una terra dove può divenire sterilizzante ogni seme d’arbitrio.

Che verrebbe da chiedersi con insanabile giustificabilità, se non sia più giovevole arrendersi, giovandosi di tale esempio, ad un remissivo totale abbandono alle ragioni, non ragioni, di una fede oltre la fede, ad una culla, ad una madre sempre offerente e in perenne gestazione.


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