Lungo il fiume (i luoghi dei giochi - lab. mem.)

 

di Franco Dino Lalli

(foto di Ivana Fiordigigli)


Anche il fiume era lo spazio dei nostri giochi. Ci dividevamo in squadre che si ponevano su una sponda o su un ponte e con il lancio di sassi più o meno grandi dovevamo cercare di bagnare gli avversari.

I più capaci si provavano, esperti pescatori, nella ricerca e nella cattura delle trote che cercavano di prendere a mani nude tra i sassi affioranti con lo smacco e la beffa di ritrovarsi a volte tra le mani qualche animale non proprio gradito.


I più intrepidi, inoltre, in quelli che erano chiamati “stortori”, cioè le chiuse che erano fatte per deviare l’acqua del fiume per l’irrigazione dei campi, erano capaci di fare il bagno e giocare con l’acqua fredda di un fiume che aveva ancora la purezza e la limpidezza dell’acqua potabile.

Gli stessi intrepidi e coraggiosi facevano il bagno anche nella “refota”, la “raffota”, il bacino d’acqua sopraelevata rispetto al mulino che, attraverso condotte forzate faceva scivolare l’acqua all’interno e muoveva così il "retrecine" che azionava l’asse e muoveva le macine di pietra. Il mulino che funzionava nella parte bassa dl paese raccoglieva il grano che un tempo la gente portava a macinare e ora non esiste più, se non nel ricordo.

Quello della raffota era un punto molto pericoloso; la maggior parte dei ragazzi preferivano andare a fare il bagno duecento metri più sotto, oltrepassato il mulino, nel tratto chiamato "u fiumittu" dove le acque erano più calme, ma abbastanza profonde da poter andare sotto e nuotare.

Ci piaceva inoltre sfidarci ad attraversare il fiume per mettere alla prova la nostra capacità di riuscire a non scivolare sulle pietre e sul muschio e finire bagnati nell’acqua.

Utilizzavamo anche gli spazi offerti dalle radure nei boschetti vicino al fiume o altrove dove installavamo il nostro “accampamento” per i giochi di svariata natura, dove imparavamo a conoscere piante ed erbe, dove custodivamo segreti e meraviglie.






Molto spesso ci inoltravamo anche lungo la valle del Vasto fino ad arrivare, con molte difficoltà di orientamento, fino all’acqua di S. Franco. Essa ci offriva la sua natura incontaminata, le sue vestigia storiche e facevamo scoperte inusitate come i resti di casali, di chiese dirute che ci offrivano le memorie di un tempo lontano amplificate dalla nostra fantasia e dal nostro estro.




Ci siamo anche azzardati a provare a vivere qualche giornata e nottata tra i ruderi della Masseria Cappelli per metterci alla prova, come in un gioco forse più grande di noi per le sue difficoltà e per le sue paure, quello di immaginarci la sopravvivenza nel provare a farci da mangiare o di trascorrere la notte al buio più profondo.

Era comunque il nostro stare insieme, il sentirci uniti nello stringerci vicini al buio che ci faceva sentire grandi e che ci faceva per un po’ sconfiggere ogni timore. Tutte queste prove, come il riconoscere le voci della notte e non averne paura, ci consentiva di sentirci un gruppo e ci dava forza.

Da adolescenti fummo perfino capaci di sfidare, inconsapevolmente, temerariamente, l’orrido di Grotta a Male con le sue sale di stalattiti, con i suoi precipizi, i suoi antri e cunicoli tetri e bui e ci resta ancora la paura dell’esperienza condotta insieme con il compagno che fu capace con me di giungere fino ai laghi sotterranei. Il ricordo è indelebile misto a terrore insieme allo stupore di aver condotto tale esperienza.

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