Fantasia e giochi (lab. memorie)

 di Franco Dino Lalli (immagini da internet)

Ci fu un tempo in cui scoprimmo la necessità e l’utilità della bicicletta che ognuno di noi si procurava o dai propri genitori o da amici. Alcune non avevano freni ma la mancanza era supportata dalle nostre scarpe che si ritrovavano consumate al massimo sia nei tacchi che nelle suole. Scorazzavamo per il paese come il vento, incuranti del pericolo, facevamo gare di velocità e ci confrontavamo sulle capacità individuali. C’era anche chi tra di noi fu capace di costruirsene una semplicemente con l’assemblaggio di pezzi trovati chissà dove, sia per necessità che per volontà e capacità personale. Successivamente tale capacità lo condusse perfino a fabbricarsi e utilizzare un motorino che tutti riconoscevamo quando scorazzava con grande strepito per le stradine del paese.



Ci fu un tempo in cui, più grandicelli e con compagni più grandi di noi, ci costruimmo delle “carrozze” con una tavola cui ponemmo cuscinetti sottostanti che ci permettevano di sfrecciare lungo la strada asfaltata che dal bivio dell’acqua di S. Franco ci faceva scorrere fino alle prime case del paese. Era un gioco veramente pericoloso in quanto le “carrozze” non possedevano freni e dovevamo, come per le biciclette, regolarci di conseguenza. Spesso uscivamo fuori strada e si verificavano cadute rovinose lungo le scarpate.



All’interno del paese la nostra curiosità e forse anche un po’ di sfrontatezza ci spronavano a visitare le case abbandonate dall’emigrazione che in qualche modo divenivano le nostre isole circondate dal mare dell’abbandono, dell’incuria e di cui noi ci inventavamo un non documentato possesso ma alquanto esclusivo. Queste diventavano il nostro ritrovo per i giochi più vari ma anche per le esperienze più disparate.

Alcuni giochi come ad esempio quello definito “cane e lebbre” cioè il gioco di un gruppo, le lepri, che dovevano nascondersi e quello dei cani che dovevano scovarle, si svolgevano sia all’interno del paese ma soprattutto all’esterno e ci impiegava un tempo infinito sia per la caccia che per il nascondiglio. I nascondigli diventavano anche i pagliai fuori del paese, i fienili, le stalle che erano così scoperti da noi nel loro uso, nei loro elementi e nella loro suggestione.



Quando la natura era provvida delle sue offerte di frutta noi ci dedicavamo alle "caccette" dei frutti di stagione che potevamo trovare ampiamente nei campi intorno al paese. Salire sugli alberi a cogliere i frutti agognati, come le ciliegie, le mele, le pesche, era il gioco più ambito proprio per i risultati immediati e per la conquista di una capacità e di un’abilità che ci faceva apparire più grandi di noi. Quando riuscivamo a conquistare i rami più alti, mentre alcuni rimanevano a terra, lanciavamo verso di loro alcuni frutti e questo ci rendeva pieni di orgoglio. Ancor oggi, nonostante gli acciacchi dell’età, mi attira mettermi alla prova con ciò che diventa più pericolo che scoperta.



D’inverno la neve arrivava come una benedizione con il suo candido manto e spesso con le bufere che ci costringevano a rimanere tappati in casa. Ma per noi era un incanto osservarla mentre si depositava, si accumulava e regalava spettacoli pieni di meraviglia. Uscivamo trafelati e subito cominciavamo battaglie con le palle di neve, creavamo pupazzi con tutti gli elementi necessari con tutto ciò che trovavamo. Soprattutto ci piaceva scivolare lungo le discese delle strade che allisciavamo con i nostri corpi a rischio e pericolo per chi si trovava a passare di lì e che non ci risparmiava rimproveri e vituperi.



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