Tradizioni a rischio Covid

 

Che strano periodo stiamo vivendo! Per il Covid19 tutti i comportamenti sono da rivedere e da adattare a norme e costrizioni; anche tradizioni secolari rischiano di innescare una miccia e creare problemi. Quando si legge su un quotidiano un titolo come questo: “Uccisione del maiale a casa, i sindaci (sono i sindaci di Vasto e San Salvo) vietano i banchetti”, bisogna ripensare tutto il nostro modo di vivere e tutti gli usi e tradizioni, tenendo conto del rischio contagio.

E’ capitato a Pizzoli; quindici persone sono rimaste contagiate la settimana scorsa dopo il rito della macellazione del maiale. La stessa cosa è capitata nel Molise a Sant’Elia a Pianisi. Legalmente l'uccisione del maiale dovrebbe essere fatta nel mattatoio e non in casa.




Proviamo a ricordare questa tradizione.

Nell’economia dei paesi rurali per secoli l’allevamento del maiale ha costituito un posto importante nell’alimentazione della famiglia contadina, costituendo una riserva di cibo per un anno intero.

Di qui l’attenzione massima e le cure per crescere bene il maialino, di solito acquistato l’anno precedente e accudito per mesi e il sorgere quasi di una gara fra le donne per portarlo ai quasi due quintali di peso. Questo faceva sì che si avesse, sia una carne molto saporita, sia il condimento per la cucina attraverso i pezzi di lardo e lo strutto conservato dentro le “budella” dello stesso maiale.

In Assergi il rito della uccisione del maiale avveniva in genere nei giorni intorno a Natale e Santo Stefano, se le temperature erano favorevoli.

Numerosi erano i norcini che operavano nel paese; erano ricercati e considerati veri professionisti. Intorno al macellaio erano in tanti ad aiutare: ruotavano tutti i componenti della famiglia, vicini di casa volenterosi, amici e parenti. Questo faceva sì che il lavoro connesso diventasse anche una bella occasione per una festa.

Bisognava mettere in programma almeno due giornate di intenso lavoro: quella del rito della uccisione e pulitura del maiale, sino a poterlo appendere per le zampe posteriori in cantina già sezionato a metà; quella della lavorazione delle carni, dopo aver sezionato le varie parti con arte chirurgica e molta attenzione per non rovinare i “prosciutti”, le “spallette”, le “pancette” i pezzi di “lardo”, le “lonze”, le “cotenne”, gli “zampitti”, le “costatelle”, il tutto da salare e tenere in cantina. Questo sino a poter poi appendere i vari pezzi, una volta asciugati, a prendere qualche buona gelata,  poi trattarli alla fine con pepe, peperoncino e disporli appesi alla "stanga" della cantina a stagionare.

Il resto dei pezzi di carne veniva suddiviso a mucchi “sopra a gliu tavolone” del macellaio secondo la destinazione: salsicce, “cicolane” “sanguinacci”, fegati.

Nulla veniva trascurato; mentre le “budella” pulite accuratamente dal macellaio, trattate e profumate con vino, scorze di limone, arance, venivano usate per le salsicce, le più irregolari e brutte di esse servivano per fare le saporite “ngoglie”.

I ritagli di lardo venivano messi in un pentolone a bollire e friggere al punto giusto: non dovevano né rimanere molli né prendere il senso di bruciacchiato. Il macellaio qui cercava una “sparra” di tessuto forte, nella quale filtrare i pezzi di lardo, ormai rimpiccioliti e fumanti, per poterli prima strizzare a mano, avvolgendoli stretti stretti nella “sparra” e facendo scorrere tutto lo strutto, poi mettendoli in una specie di pressa fatta con due tavole lisciate e modellate con due lunghi manici e, attraverso i fori della parte inferiore, legate con una robusta corda. Tutti aspettavano a questo punto l’arrivo in una scodella dei gustosi “sfrizzoli” che, se il macellaio era stato bravo, erano ben secchi.

Con la carne della testa del maiale e altri scarti e cotenne, messi a bollire e poi scelti sul tavolone, conditi e profumati, veniva fatta la “coppa”.

Non mi soffermo a descrivere passo passo le singole operazioni, ma si poteva in questi giorni assistere a delle particolari scenette. Dato che in Assergi le stalle erano collocate fuori dal paese, i maiali venivano prelevati da esse e, legati ad una zampa, percorrevano tutto un “tragitto”, seguiti da una schiera di ragazzi, sino ad arrivare alla casa del singolo padrone. Certamente non era facile farli camminare, per cui la padrona del maiale, come suo contributo e aiuto, cercava di allettarlo con un secchio contenente un po’ di granturco; lo sbatteva, lo agitava, incitava il maiale a muoversi, nella coscienza della importanza di questo cibo per la famiglia.

Davanti alla casa c’erano già ad aspettare il norcino, amici e familiari, la “cottora” piena di acqua in ebollizione, la scala su cui stendere il maiale, secchi, brocche e pentole occorrenti.

Il sangue raccolto veniva subito bollito nella “cottora”, per poter poi preparare dei piccanti “sanguinacci”.

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