Tradizioni: i quattro "Calendi" e le previsioni metereologiche

 


Nei tempi lontani la forma di vita collettiva più importane era quella che si viveva durante le veglie nelle stalle, i luoghi più caldi 

di Franco Dino Lalli

 "Nella categoria delle cerimonie di passaggio rientrano anche quelle che accompagnano e, a seconda dei casi, assicurano il cambiamento di anno, di stagione, di mese…”1

L’inverno, infatti, con il suo forzato rallentamento dell’attività economica e nella sua forma latente di morte e di sonno, costituisce un periodo di passaggio e cioè un periodo di margine. 

 "per gli uomini le stagioni rivestono un interesse particolare, non per le ripercussioni economiche che comportano sull’attività essenzialmente industriale, che si svolge durante l’inverno, quanto sull’attività inerente l’agricoltura e la pastorizia nel periodo della primavera e dell’estate. Ne consegue che i riti di passaggio propriamente stagionali hanno il loro esatto equivalente nei riti destinati ad assicurare la rinascita della vegetazione dopo il periodo di margine costituito dal rallentamento vegetativo dell’inverno”2

Per quanto riguarda il cambiamento di anno e per ciò che concerne i riti di margine a esso inerente, per mezzo dei quali si tentava di indagare e influenzare positivamente l’esito dell’anno, importanti erano due momenti ben precisi: i “quattri Calendi” o “quattri Calandi” (probabilmente da Calende) e i primi dodici giorni di gennaio. 

Il primo momento si riallaccia più propriamente a quei riti cosmici a cui sono soggetti tutti i corpi, il secondo invece era più strettamente legato all’indagine empirica dell’esito dell’anno. I “quattro Calendi” sarebbero stati i primi quattro giorni di gennaio che assumevano le vesti delle quattro stagioni, cioè una sorta di quattro saggi che discutevano tra di loro e cercavano di mettersi d’accordo sull’esito favorevole o meno dell’anno appena nato, sia per il raccolto che per la vita. Se nell’arco di questi quattro giorni il tempo era brutto era segno che l’accordo non c’era stato e l’anno ne avrebbe risentito negativamente o viceversa. 

L’esito dell’anno era stabilito anche prendendo in esame i primi dodici giorni di gennaio. Ogni giorno era rappresentato da un mese dell’anno e per ogni giorno si stabiliva l’esito di ogni mese. Se ad esempio il primo gennaio fosse stato cattivo tempo, quasi tutto il mese di gennaio avrebbe avuto un cattivo tempo meteorologico o viceversa. Così si pensava fosse per gli altri mesi. 
Tali consuetudini, entrate nella tradizione, ovviamente oggi rappresentano soltanto residui del passato del tutto o quasi scollegati dalla vita reale. 

I giorni dell’anno per tradizione, erano considerati e divisi in giorni fasti e giorni nefasti. Nella settimana c’erano dei giorni stabiliti che erano definiti nefasti e durante i quali non si doveva iniziare un lavoro, non sposarsi e non partire. Anche se : 

Sabate, domenica, lunedì, martedì, 

mercurdì, giuveddì, venardì, 

tutti i jorni sò de Dì. 


Ne’ de Vènere, né de Martere, 

nen se sposa e nen se parte, 

nen se dà principie all’arte. 


Il periodo invernale, periodo di margine con il rallentamento della vita lavorativa, trovava tuttavia la comunità partecipe di altre forme di vita socio – economica, solo apparentemente statiche o vegetative. 

Nei tempi lontani la forma di vita collettiva più importante era quella che si viveva durante le veglie nelle stalle, i luoghi più caldi grazie alla presenza del letame degli animali. Durante queste veglie si svolgevano i più svariati tipo di lavoro: le donne filavano, cucivano, rammendavano, tessevano, preparavano il corredo nuziale, mentre gli uomini accomodavano i loro strumenti di lavoro. 

L’importanza di questi momenti di vita collettiva era proprio in questo vivere in comunità che rappresenta uno dei più fondamentali livelli tradizionali di acquisizione del patrimonio culturale. Mentre si svolgevano i vari lavori si scambiavano pareri, si raccontavano storie, leggende, si cantava, si ballava, ci si confrontava e si discuteva sui problemi di tutti i giorni e sul modo di concepire la vita e il mondo. E’ proprio in questo comunicare, narrare, esprimersi affidandosi alle parole, che col tempo diventavano verità codificate, il motivo e il senso fondamentale del folclore, cioè di quella concezione che diventava autonomia di vita e di cultura intesa in senso storico in quanto materialmente legata alla vita. 


1 Van Gennep Arnold, Van Gennep Arnold, I riti di passaggio, Torino, Boringhieri 1981, Pag. 155 


2 Van Gennep Arnold, op. cit. Pag. 155

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