Stalla, ambiente di lavoro e di incontro

 di Ivana Fiordigigli 

Addò’ và?

Alla stalla.”

A ju pagliare.

Stalla sostantivo femminile [dal germ. *stall «sosta, dimora»]. – Ambiente o fabbricato rurale nel quale sono tenuti chiusi per una parte del giorno, e soprattutto durante la notte, animali domestici da allevamento, specialmente bovini Quando si tratta di un ambiente singolo, e per uno o pochi animali, si dice spesso stalla anche per cavalli, asini e muli, pecore e capre, maiali).

Pagliare in Assergi è in genere il piano superiore della stalla, ove venivano riposti fieno e paglia, che servivano in inverno per l’alimentazione degli animali. Meno usata è la parola fienile, anche se insieme alla paglia veniva riposto e mantenuto anche il fieno. Preparare paglia e fieno per la “magnaora”, con le forche, veniva indicato come “fare lo strame”, ed occorreva farlo tutti i giorni.







Tutta la vita agricola e contadina ruotava intorno alla stalla.

Sotto la porta della stalla, sopra il pagliaio

In primavera ed inizio estate si procedeva allo sgombero e pulitura della stessa con il “cacciare lo stabbio”. Si riempivano le sacchette con il letame degli animali accumulato nel periodo invernale, si procedeva a caricare l’asino o più asini per portarlo nei terreni bisognosi di concimazione da destinare alla semina del grano o nelle terre già produttive con erba medica oppure con crocetta.

Mentre le persone più anziane accudivano il bestiame nelle stalle, maiali o animali da cortile, gli altri si preoccupavano degli approvvigionamenti per l’inverno: faucià l’erba, seccà lo fieno e portarlo nei pagliari presso le singole stalle.

Nel periodo di luglio e di agosto tutti si dedicavano alla metitura, a raunà, e alla tresca presso l’ara. Le donne riempivano i rustici e contadini lenzori della paglia e portandoli miracolosamente in equilibrio sulla testa li trasportavano sino alle stalle e ai pagliari, spesso salendo anche scale di legno a pioli.

In autunno la preoccupazione era la semina; con le vacche di due proprietari si aravano i terreni un giorno all’uno, un giorno all’altro, “a connutt’”, aiutandosi a vicenda.

A fine autunno rientravano nelle stalle, pronte e ripulite. tutti gli animali portati al pascolo in montagna, custodite dai “Vaccari”.

In dicembre, ai primi freddi, e in parte a gennaio venivano ammazzati i “porchi”. Tra i norcini più noti: Clemente Pace, Ascenzo Valeri, Luigi Cipicchia, Luigi Faccia, Serafino Pace, Angelo Napoleone, i più giovani Valeri Francesco.


In inverno le giornate, anche ad Assergi, portavano sempre intorno alle stalle, dove stavano gli animali da accudire. C’è da aggiungere che questo paese ha sempre avuto una struttura urbanistica particolare con case e abitazioni dentro la cinta delle Mura, stalle e pagliare fuori delle Mura, per cui al mattino e alla sera tutti andavano nella zona delle stalle per accudire gli animali; famiglia e vicinato si ritrovavano insieme proprio lì.



Era il periodo del proverbio: “Prima di Natale, né freddo né fame; dopo Natale freddo e fame.”

In questo periodo aumentava la partecipazione collettiva intorno e dentro le stalle con diversi lavori ed occupazioni. C’era chi si dedicava a “fare lo strame” e togliere lo “stabbio”. Chi si dedicava a riparare gli attrezzi agricoli.

I bambini e di ragazzi più piccoli o guardavano giovanotti ed adulti immersi nei loro lavori, occupazioni e passatempi presso la stalla o si accostavano alle donne incantati ad ascoltare i racconti reali o fantastici che si intrecciavano nelle veglie.

I giochi che andavano per la grande erano:

- a morra

- a bocce

- pane e salame

- libero

- ceca caglina

- salto della cavallina

- salti con la corda;

- giochi con le biglie;

- a sbattimure;

- la flezza;

- la fionna

- ju ciufelitte

- ju piccaru e la nzavaglia

- ju cacciapalle e le palline con la stoppa ciancicata

- ju cerchiu

- palla, pallina battendola contro il muro e divertendosi a riprenderla dopo giravolte, battute di mano;

- girotondo;

- stira, stirarella, prendendosi stretti per le mani, per contrastare la forza centrifuga, e girando velocemente.

I giovanotti, aiutata la famiglia a rimettere a posto la stalla, si raccoglievano intorno a “Riglittu” che, con pezzi di legno provenienti dal taglio del bosco si dedicava a fare degli sci, piegando pian piano al caldo del letame le tavolette per sollevare ed arrotondare la punta e levigandole bene sotto, passando anche la cera delle api, per farle scorrere agevolmente sulla neve. Si divertivano anche con la boxe, allestendo una sacchetta piena di letame appesa a una trave di legno della stalla, per allenarsi a dare pugni. L’altra grande occupazione erano parlare delle ragazze, far loro scherzi e scherzando far colpo sulla “innamorata”.

Gli uomini più anziani, pulito “ju porcile” o il posto delle mucche o asini o cavallo, o animali da cortile, e dato ad essi da mangiare, giocavano “a bocce” nella strada davanti alle stalle oppure a “morra”. 



Qui si giocava a bocce

Tutti poi si riparavano al caldo nelle stalle, dove lavoravano le donne.

Le donne anziane di tutto il vicinato si riunivano in alcune di esse, prescelte perché più ampie, calde, comode, pulite e attrezzate con rudimentali panche o sedie, a filare, lavorare a maglia, a uncinetto ed altre occupazioni.

Uno dei luoghi frequentati perché presentava una serie di stalle appena fuori dalle Mura di Assergi e perché era esposto ad est al sole ed era riparato dai venti era Via Le Grotte. Un altro era in contrada S. Antonio. Anche in altre zone c’erano delle stalle in cui ci si riuniva.

Queste stalle fungevano da luogo di incontro e quale laboratorio per i lavori invernali, erano luoghi di vita e di cultura collettiva del paese, cultura che si viveva in esse durante le veglie, quali luoghi più caldi. Era un vivere in comunità, che rappresentava uno dei modi, e fondamentale, di acquisizione del patrimonio culturale.


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Lavorando si parlava e si raccontavano episodi di vita, storie, fiabe, anche racconti incredibili di fantasmi, folletti, streghe. I ragazzi più piccoli spesso rimanevano incantati ad ascoltare, ma restavano impressionati.

Un anziano, intervistato, afferma che si raccontava con tanta suggestione e con particolari così crudi e forti, che lui e il fratello piccolo, quando poi venivano mandati di notte e al buio a irrigare il campo un po’ lontano dal paese, sussultavano ad ogni rumore o fruscio del vento, gli sembrava che i cespugli si agitassero e vi si nascondessero fantasmi o streghe descritti nei racconti, perciò correvano lungo la strada, rabbrividendo. L’unico aspetto positivo poteva essere lo stimolo, la spinta, attraverso paura, ad avere atteggiamenti corretti, a seguire le regole della comunità, ad avere rispetto degli altri.

Erano racconti tra il reale, il fantastico e il religioso o sacro opportunamente mescolati, e generavano nei più piccoli, ingenui, o sprovveduti ascoltatori, anche timori e paure. Le tematiche ruotavano su personaggi come fantasmi e folletti, su testimonianze di guerra, su streghe e fate buone o cattive, su reminiscenze di fiabe antiche o moderne, reminiscenze di poemi epici antichi, su alcuni particolari abitanti del paese che colpivano la fantasia o per la loro forza, o per la loro saggezza, o per il loro coraggio o per la loro stranezza ed arguzia o per i loro comportamenti o atteggiamenti ritenuti strani.

Credo che sia da catalogare tra questo tipo di storie il seguente racconto di Eugenia Vitocco, che emigrata molti anni fa in America, ricorda la sua fanciullezza e adolescenza in Assergi ed invia questa testimonianza, di cui riporto uno stralcio, al sito “Assergi Racconta”:

Nell’ultima decade del diciannovesino secolo c’era un uomo anziano in Assergi, lo avevano soprannominato il frate sfratato. Aveva trascorso molti anni in un monastero e poi senza che nessuno ne sapesse i motivi era ritornato in Assergi. Ne avevano tutti paura e specialmente i bambini come questa zia e mio padre e lo chiamavano e lo definivano un diavolo.

Non pregava, aveva disertato la chiesa, non supplicava i santi e Dio nell’evenienze della vita, anzi li bestemmiava a suon di trombe cominciando da Dio, Gesu Cristo e tutti i santi; il suo motto era bestemmiare e lo faceva anche mentre camminava, ignorato e isolato da tutti. Strano atteggiamento se ci si pensa per un exfrate che era vissuto tra altari, preghiere, sacramenti, e santita`. Ecco che un bel giorno si ammalo`, si era avvicinato al traguardo finale della vita e invece di pregare e raccomandare la sua anima a Dio continuava a bestemmiarlo. Quando entro` nell’agonia della morte (mentre in Assergi rintuonava nelle viuzze la notizia che stava morendo) ci fu uno strano avvenimento nella campagna di Assergi, e propriamente nella lontana visibile zona pianeggiante all’altezza dell’acqua di San Franco visibilissima dai punti piu` alti dell’abitato dove per il caso si raccolse tutta la popolazione ad osservare uno strano fenomeno; uno sfolgorare di luci e di fiamme (stando a questa zia) erano come centinaia di` lingue di fuoco gialle, rosse, bianche, alte, basse che si alternavano ballando velocemente da generare uno spettacolo spaventoso per cui specialmente i bambini vissero momenti di terrore e di panico.

Gli adulti risolsero l’avvenimento attribuendo il tutto al frate sfratato dicendo che quelle fiamme erano demoni saltellanti di gioia che aspettavano la sua anima li`, perche` stava morendo. Allora tutti i misteri si risolvevano metafisicamente e con l’aggiunta dell’etica si spiegava tutto benignamente o malignamente come opera di angeli o di demoni; in tal caso incolparono il frate sfratato considerato uomo demoniaco ossia un demonio che tornava tra demoni. 


Una signora mi ha detto che nel suo paese negli anni cinquanta, da adolescente, ha avuto modo di entrare due sere in una delle due stalle dove ancora ci si riuniva a passare la sera e a lavorare ed ha vissuto questo come una avventura, anche perché sua madre per principio non ce la avrebbe mai portata. Ricorda ancora, stampate nella sua mente strane storie che costituiscono tutto un repertorio: cavalli o altri animali trovati il mattino con la coda accuratamente intrecciata, dispetti fatti agli animali domestici, oggetti che sparivano ed apparivano o venivano ritrovati al mattino in uno strano disordine e scompiglio, mobili spostati, strani rumori che si avvertivano di notte per tutta la casa, e così via di questo passo; provviste povere che sparivano, malocchi che venivano fatti o sconciati, maledizioni che venivano lanciate e si attaccavano alle persone condizionando tutta la loro vita, fate malefiche incontrate per caso; raccomandazioni di stare attenti, rientrando in casa, a mettere dietro l’uscio una scopa per impedire alle streghe di entrare; fantasmi che giravano in chiesa coperti da bianchi lenzuoli, “lupi mannari”, orchi assassini, diavoli incontrollabili. Il tutto condito di particolari realistici e agghiaccianti, andando oltre ogni regola e raziocinio.

Anche se, una volta tornata a casa, la madre non ha fatto altro che smitizzare tutte queste storie e anche i lavori svolti, smontandone trucchi e dimostrando la non veridicità (i fantasmi in chiesa altro non erano che ladri e burloni che volevano rubare le offerte per la chiesa; sciocchezze senza fondamento i malocchi; fantasie buone per tutti i gusti le streghe; scherzi di burloni gli oggetti che apparivano e sparivano in casa; e così di questo passo) queste storie si sono per sempre scolpite nella sua mente come segno dei segreti misteri della vita e del mondo e di segreti legami con l’arcano di migliaia di generazioni che queste storie hanno tramandato. Esse restano ancora oggi nella sua mente, nonostante una formazione ed una cultura accademica di tipo razionale e di impostazione scientifica.









Mentre si svolgevano i vari lavori, al lume di una lanterna, si scambiavano pareri, si raccontavano storie, leggende, si cantava, si ballava, ci si confrontava e si discuteva sui problemi di tutti i giorni e sul modo di concepire la vita e il mondo; quindi “stalla” assurgeva a luogo di socializzazione, di cultura e di trasmissione della cultura, stalla come luogo di incontro e scambio.




Lavori nella stalla, nel Presepe di Camarda



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