San Franco di Assergi: la storia e la lezione di Giuseppe Lalli

Premessa di Ivana

Oggi pomeriggio, 26 luglio 2020, alle ore 17.30 ha avuto luogo l'incontro del "Giardino Letterario. La seconda delle relazioni è stata quella del dott. Giuseppe Lalli, che con competenza ed ampiezza ha parlato a nome della nostra associazione e ha presentato i principali momenti della vita di San Franco, alcune delle fonti a cui fare riferimento, il movimento eremitico medioevale, alcuni tratti della sua spiritualità e santità.

Finalmente! Ci voleva l'evento "Ottocentenario" della sua morte e, contemporaneamente, della sua nascita come santo, per tornare a ridare spessore ad una straordinaria figura di uomo e di eremita vissuto tra XII e XIII secolo e che con la sua santità ha reso per sempre sacri i monti del Gran Sasso, in cui ha per anni vissuto e soggiornato, ha pregato e sofferto, ha compiuto miracoli e percorso tutti i sentieri dei versanti aquilano e teramano. Eppure è stato non solo molto trascurato, ma oggetto di omissioni più o meno volute, di non citazioni. In alcuni discorsi fatti a proposito del sentiero dei due Santi San Franco possiamo solo andarlo a collocare fra le "emergenze storiche" del territorio. Non si è considerato che, più che una "emergenza", la sua figura è una imponenza storica.

E' stato accostato, in questa giornata, ad altrettante belle esperienze di vita e di santità dei nostri territori: Celestino V, San Bernardino da Siena, San Gabriele, Giovanni Paolo II.

In senso cronologico San Franco è quello più antico e lontano, è figlio di quei Castelli, che qualche anno più tardi daranno vita all'Aquila e alla sua storia; è figlio, come eremita, della montagna del Gran Sasso. Questo però, non significa che è lontano da noi, anzi è straordinariamente attuale e vicino alla nostra sensibilità di uomini di oggi e di una società produttivista, consumistica, globale, indifferente, che sta determinando grossi problemi di sostenibilità ambientale.

Il suo vivere immerso nella natura, a contatto con essa e anche con i suoi aspetti più selvatici e pericolosi, il suo saper coabitare con gli orsi, facendo amicizia, il suo saper parlare con il lupo, il suo saper dominare fenomeni naturali come frane, slavine, crolli di alberi, la sua semplicità, possono diventano un simbolo per l'uomo di oggi.


Relazione  al Giardino Letterario di San Pietro della Ienca del 26 luglio, su incarico dato al Dott. Lalli dalla associazione culturale "Assergi, cultura, memoria e montagna"





Nei primi secoli dell’era cristiana, in quell’affascinante stagione della storia che chiamiamo ‘Medioevo’, poteva accadere che in questi luoghi solitari e remoti dell’Appennino, alcuni giovani, magari provenienti da famiglie gentilizie come Benedetto da Norcia, giovani assetati di assoluto, sentissero il bisogno di unirsi per condurre vita comune nella pratica della nuova religione del Dio incarnato. E così fondavano un monastero. Più tardi, attorno al monastero cominciavano a stabilire le proprie dimore i montanari dei dintorni, e si iniziava a disboscare e dissodare le terre circostanti. E infine si costruiva la chiesa, che diventava punto di aggregazione comunitaria, liturgica e civica, di quell’uomo medievale che è unitario, non schizofrenico come quello moderno. Qualcosa del genere è potuta accadere anche in questa nostra contrada, dove, per una di quelle singolari circostanze che chiamiamo coincidenze e che forse dovremmo chiamare ‘Dio-incidenze’, in uno stesso torno di tempo è nato un castello, quello di Assergi, una chiesa, il nucleo dell’attuale chiesa parrocchiale di Assergi, e, in una non lontana contrada, un uomo, il futuro San Franco, che a questo a questo castello e a questa chiesa ha intrecciato il suo destino, in vita e dopo la morte.

Le notizie su San Franco ci vengono quasi tutte dagli Atti, come dicevo, che sono l’antico manoscritto latino che fu conservato nella chiesa parrocchiale di Assergi fino al 1791 e poi andato perduto. Nicola Tomei, che lo ebbe tra le mani, nella citata Dissertazione lo descrive come un piccolo codice membranaceo scritto in carattere antico abbastanza intellegibile, con lettere iniziali miniate, contenente la vita, morte e miracoli di S. Franco.

Il Tomei assegna il manoscritto agli ultimi decenni del secolo XIII (a differenza di qualche altro studioso, che lo colloca comunque non al di là dei primi decenni del secolo successivo) e crede che si tratti della stesura primitiva o di una copia ricavata su di essa. Pensa altresì che lo scritto debba attribuirsi ad un monaco o a un prete di Assergi, contemporaneo del santo, che aveva inteso tramandare avvenimenti a cui aveva assistito o che aveva udito raccontare da chi ne era stato testimone. Si deve quindi ritenere che ci troviamo di fronte a un testo scritto quando il santo era morto da poco. Oltre a quella riportata dal Tomei nella sua Dissertazione, di versioni degli Atti ne esistono altre tre: una, riportata dai Bollandisti, redatta dal gesuita Padre Antonio Beatillo, a cui Tomei muove puntuali critiche di ordine filologico, e altre due, curate dal benedettino Padre Costantino Caetani, custodite nella Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma. Pur presentando queste quattro versioni alcune varianti grammaticali e sintattiche, oltre che nell’estensione della narrazione riferita ai miracoli attribuiti al santo post mortem, esse sostanzialmente concordano nel testo, e si possono persino disporre in lettura sinottica, come del resto ha fatto Don Demetrio Gianfrancesco nel suo Eremita del Gran Sasso, pubblicato nel 1980.

Che cosa ci dicono questi Atti ?

Franco nasce all’inizio della seconda metà del XII secolo, allorché la dominazione normanna nell’Italia meridionale volge al declino. L’anonimo biografo non riporta la data di nascita, ma ci fornisce, in relazione ad essa, dei riferimenti storici, tra i quali il più stringente è quello relativo al papato di Adriano IV (4 dicembre 1154-1°settembre 1159, in tutto 4 anni e nove mesi). Nessun dubbio invece sul luogo: nasce a Roio (Castellum de Roge o anche Pagus ruìdus, come si legge in alcuni antichi documenti), nell’attuale frazione di Roio Piano, che al tempo faceva parte del feudo amiternino e della diocesi di Forcona. Ancora oggi, a Roio Piano, in un edificio una lapide apposta sul muro ricorda che quella era la casa natale di San Franco.

Franco nasce da agiata famiglia di allevatori, e mostra ben presto di essere un ragazzo intelligente e virtuoso. Il padre lo affida alle cure del prete Palmerio affinché gli dia i primi rudimenti. Nell’animo del ragazzo matura assai presto la vocazione religiosa, e un giorno in cui un suo fratello maggiore, forse mosso da invidia, lo costringeva a pascolare le pecore, fugge e bussa alla porta del monastero benedettino di San Giovanni in Collimento, a Lucoli. Qui, resistendo alle insistenze dei genitori che volevano che tornasse a casa, completa gli studi e conduce per vent’anni una esemplare vita di monaco, rifiutando, alla morte dell’abate, di sostituirlo alla guida della comunità, nonostante la volontà espressa dai suoi confratelli. Spinto da un desiderio di perfezione maggiore, una notte, scambiato un commosso abbraccio con i suoi compagni, prende congedo da loro e si rifugia dapprima in una grotta vicino ai boschi di Lucoli e poi, sfuggendo ai tanti devoti che, spinti dalla fama che presto si diffonde delle sue virtù e dei suoi prodigi, desiderano incontrarlo, vaga dalle parti di Montereale, per poi raggiungere un luogo remoto sopra il territorio del Vasto, dove miracolosamente fa sgorgare una sorgente d’acqua pura e dove rimane per cinque anni. Ma nemmeno questo, a lungo andare, gli pare posto adatto alla sua esigenza di solitudine. Molta gente va a fargli visita, e allora si sposta verso i monti sopra Assergi, sistemandosi in una spelonca sotto una rupe. La tradizione ha identificato in una grotta sotto le rocce di Pizzo Cefalone e in un’altra più in basso, detta “I Peschioli”, i due eremi dove l’eremita trascorse i suoi ultimi quindici anni, conducendo vita austera e compiendo molti miracoli. Scendeva a valle solo nei giorni festivi per assistere alla messa nella chiesa di Assergi e ricevere i sacramenti dai monaci del contiguo monastero.

Quando Franco rende l’anima a Dio, le campane della chiesa di Assergi suonano da sole; i monaci, insieme a tutto il popolo, svegliati e commossi, vedono una luce che promana dalla grotta dell’eremita e intuiscono ciò che è accaduto. Raggiungono l’eremo. Canti e lacrime si confondono, depongono devotamente in una barella il corpo che odora soavemente e lo trasportano a valle. Più che un corteo funebre dovette trattarsi di una piccola marcia trionfale. Possiamo immaginare che il corteo entra nel castello di Assergi e si dirige verso la chiesa. Nella cripta vengono tumulate le spoglie mortali di colui che per il popolo è già santo. Dopo qualche tempo le ossa verranno estratte e sistemate in una cassa di pietra andata perduta e della quale si conserva il solo coperchio, dove è scritto in latino: Qui riposa il corpo di Franco(ne), sacerdote di Dio, 5 giugno.

Il culto popolare inizia subito dopo la morte. Il vescovo di Forcona dovette ben presto approvare le manifestazioni spontanee dei fedeli. E così San Franco ebbe il suo altare, la sua ufficiatura e la sua festa liturgica. Giova osservare che nell’epoca di cui si parla il riconoscimento della santità era demandato ancora alla chiesa locale, vale a dire al vescovo. La canonizzazione affidata al papa, che pure era già iniziata, non si era ancora consolidata nella prassi ecclesiale.

Non si deve però pensare che quella locale fosse una prassi sbrigativa nella quale il vescovo si limitasse a sancire automaticamente il fervore popolare. Al contrario, si trattava di un procedimento assai rigoroso. Anche se la “vox populi” era considerata un indizio importante, l’approvazione del vescovo non era affatto scontata.

La fama di santità dell’eremita del Gran Sasso si diffonde assai presto e oltrepassa gli stessi confini della regione. Attualmente si festeggia nei paesi che furono toccati dalla sua biografia: Roio, naturalmente, il suo paese natale, Lucoli, nella cui abbazia visse per vent’anni, Arischia, nel cui territorio ricade l’Acqua di S. Franco, Ortolano, frazione di Campotosto la cui chiesa parrocchiale è intitolata al santo eremita, ed è poi protettore, oltre che di Assergi, di una piccola frazione di Isola del Gran Sasso, Forca di Valle, dove, particolare curioso, il santo è rappresentato non vecchio e con la barba, ma come un giovane pastore, a significare forse che la santità è un’eterna giovinezza.

Ho richiamato questi dati storici non per inutile pedanteria, ma per mostrare che la vicenda di questo santo, ancorché assai lontana nel tempo, e sia pure con qualche incertezza temporale e inesattezza che si riscontra negli Atti in riferimento al contesto storico-politico, è storicamente attendibile. Inoltre, come dirò, è inquadrabile in un preciso contesto religioso e in una determinata geografia spirituale.

Quella di San Franco è senz’altro una vicenda originale (ma del resto tutti i santi sono originali), una vicenda originale ma non isolata, e si capisce meglio alla luce di un fenomeno, quello dell’eremitismo dei secoli centrali del Medioevo, tra l’XI e il XII, che interessò l’Italia e l’Europa, e che avvenne all’interno di un più generale movimento di rinnovamento spirituale. Ciò avveniva in un contesto sociale caratterizzato da una forte crescita economica e da una intensificazione dei rapporti commerciali.

Un particolare colpisce della biografia del giovane Franco. Egli è di buona famiglia. I suoi appartengono ad una classe che con terminologia moderna potremmo definire di piccola borghesia agraria, che vive di pastorizia e commercializzazione della lana. Il giovane Franco, intelligente e sensibile, realizza ben presto che quello di una tranquilla esistenza di agiato possidente non può essere il suo ideale di vita. Egli chiede alla vita un senso. C’è, da parte sua, una richiesta di senso che è anche, a mio parere, una larvata protesta nei confronti di una certa ipocrisia di una società che già mostra i segni dell’opulenza, a cui Franco oppone la scelta della radicalità cristiana, un atteggiamento analogo a quello che sarà di Francesco d’Assisi, sia pure declinato in forme diverse.

A partire dal X secolo, e in modo particolare tra l’XI e il XII, l’età in cui vive Franco, in un contesto religioso percorso da fermenti di rinnovamento evangelico cui non sono estranee attese di tipo apocalittico, alla crisi del monachesimo tradizionale corrisponde una rinnovata fioritura spirituale, che si manifesta, da un lato, in forme più o meno organizzate che presto verranno inquadrate nei grandi Ordini Mendicanti ( i Domenicani e i Francescani); dall’altro, in forme libere e individuali, come è il caso del nostro eremita.

Questo eremitismo della seconda ondata differisce da quello dei primi secoli dell’era cristiana in più di un punto. Se quello antico si caratterizza per la ricerca del deserto (prevale la fuga dal mondo), quello medievale, che è profondamente segnato dalla prevalenza della Regola monastica di San Benedetto, tende ad ad armonizzarsi con il contesto sociale.

La vicenda di Franco, a saperla leggere, è intrisa di questa socialità. Dagli Atti traspare abbastanza chiaramente come in Franco la fuga dal mondo convive, sia pure in maniera problematica, con l’apertura al mondo. Vediamo che Franco, da un lato non si sottrae al rapporto con quanti lo cercano, dall’altro cerca sì di isolarsi, ma è un isolamento che è dettato dall’esigenza di mantenere la pace interiore sulla punta dell’anima ed è finalizzato ad attingere da un rapporto più intenso con Dio la forza per abbracciare tutto e tutti.

Del resto, un’altra differenza tra questo eremitismo e quello antico attiene ad un aspetto all’apparenza pratico, ma che ha conseguenze anche di ordine spirituale: mentre gli anacoreti dei primi secoli sono dediti alle attività manuali, con le quali si procacciano il necessario per vivere, quelli del tempo di Franco vengono assai spesso riforniti dai devoti. L’eremita, al contrario del cenobita, diventa in questa età una figura familiare, perché incontra la gente: la vita contemplativa non esclude le relazioni umane. Franco ci appare tutt’altro che un misantropo. Se fosse stato un misantropo, o un asociale, i monaci di Lucoli non lo avrebbero preferito come loro capo; e quando ha preso commiato dai suoi confratelli li ha abbracciati con le lacrime agli occhi.

Girovagando tra queste montagne, magari alla ricerca di frutti di bosco, avrà sicuramente esercitato l’apostolato occasionale.

Quante liti tra pastori avrà sedato; quante dispute tra piccoli proprietari, magari per problemi di confini, avrà composto; quanti consigli a vecchi e giovani avrà dispensato; e quanta paziente direzione spirituale avrà esercitata anche tra i suoi stessi confratelli del convento di Assergi, che lo avranno considerato un fratello maggiore.

Avrà perfino, di tanto in tanto, accettato di mangiare un pezzo di pane e un po’ di pecorino con i pastori.

Sarebbe tuttavia fuorviante giudicare la vicenda di Franco con le sole categorie umane. Gli stessi miracoli, che spesso ci parlano di un ritrovato equilibrio tra l’uomo e la natura, servono all’uomo di Dio a mostrare “i nuovi cieli e le nuove terre”, cioè l’anticipo di ciò che attende una umanità riconciliata, nella Grazia, con la natura, e a far vedere ciò che doveva essere il mondo prima che il peccato intervenisse a rompere l’equilibrio che Dio aveva stabilito. Al tempo stesso Franco mostra come la natura stessa sia un miracolo permanente per chi la voglia vedere con gli occhi della fede: il grano che cresce, l’acqua che scorre, gli alberi che danno frutti.

Un’altra sollecitazione ci viene da questo Medioevo degli eremiti: il valore di quella condizione esistenziale così estranea alla mentalità odierna, vale a dire il silenzio: il valore del silenzio in un mondo che ha fatto della parola, anzi della chiacchiera, la sua nota dominante

Siamo così sommersi dalle parole che in ogni città importante, in ogni capoluogo di provincia, è stato eretto un monumento alla chiacchiera: il Palazzetto dei Congressi. Se ci prendessimo la briga di fare una ricerca su ciò che si dice in questi luoghi, anche in riferimento alle comunicazioni scientifiche, concluderemmo che le effettive “informazioni” rappresentano una percentuale bassissima: tutto il resto è chiacchiera, laica liturgia della parola, diplomazia comunicativa, pubbliche relazioni; quando non è autoincensamento dell’“io”, vaniloquio o sprezzante faziosità. Eppure, per poco che rientriamo in noi stessi, ci accorgiamo che prima di ogni parola sensata c’è il silenzio, e che dietro ogni idea degna di questo nome c’è un pensiero coltivato, accarezzato nel silenzio. Sappiamo per esperienza che in ogni rapporto interpersonale emotivamente intenso i momenti di silenzio superano di gran lunga quelli della parola.

Il silenzio fa parte della struttura costitutiva dell’essere umano, come ci mostrano i grandi pensatori di ogni tempo. Franco, questo silenzio, lo ha coltivato, fino a farsi abitare dall’Assoluto, e solo dopo ha parlato al lupo, che gli ha obbedito, e ha gridato all’albero che si stava schiantando sul boscaiolo e l’albero si è fermato a mezz’aria.

Come accennavo all’inizio, Assergi e San Franco sono stati per molto tempo un binomio inscindibile. Nicola Tomei scrive che « rare sono le persone del paese, ch’entrino in Chiesa, e non calino a venerare il Santo ». Nel secondo dopoguerra, quando gli emigranti partivano, chiedevano al parroco, come viatico, una messa «a cascia aperta», cioè celebrata nella cripta tenendo aperto il coperchio della cassapanca contenente le reliquie di San Franco. Alla fine della celebrazione, come ha ricordato appropriatamente in un’intervista l’amico Franco Dino Lalli, veniva fatta baciare la reliquia del braccio del santo, a protezione dalle insidie che coloro che partivano avrebbero potuto incontrare in terra straniera.

Tra tutti i miracoli che si ricordano negli Atti, uno, tra quelli registrati subito dopo la morte, a me pare il più toccante, e quello che meglio descrive il valore della santità. L’ho sentito per la prima volta dalle labbra di mia nonna quand’ero bambino. Si trova nella LectioVII degli Atti.

Si racconta che un uomo di Assergi di nome Tommaso di Giacobbe uscì di casa in pieno giorno per condurre le vacche e le pecore al pascolo nel bosco. Il figlioletto, di nascosto dalla madre, prese la stessa strada dove aveva visto incamminarsi il papà, ma ad un certo punto, perso l’orientamento, si inoltrò nel fitto della vegetazione del bosco. Vagò per tutto il giorno e alla sera, stanco e in lacrime, vinto dal sonno, si addormentò. A sera Tommaso, rincasando, chiese alla moglie dove stesse il bambino, e si sentì rispondere che essa era convinta che stesse col lui. Poiché non riuscivano a trovarlo, chiamarono i parenti e i vicini e, torce alla mano, andarono a cercarlo, ma inutilmente. I genitori cominciarono a temere che, avventurandosi nel bosco, il bimbo fosse stato divorato da bestie feroci. In preda alla disperazione, si recarono in chiesa a supplicare il santo davanti al suo sepolcro chiedendogli la protezione del figlioletto. Di buon mattino, ripresero le ricerche nel bosco e quale non fu la loro gioia quando videro il bimbo sano e salvo. Dopo averlo riabbracciato, gli chiesero come avesse trascorso la notte. Il bambino rispose che un monaco, a tarda ora, lo aveva svegliato, gli aveva dato pane e formaggio e gli era stato vicino per tutta la notte. Poi, sul far del giorno, lo aveva condotto nel posto dove lo avevano ritrovato dicendogli di non aver paura perché i genitori stavano venendo a prenderlo. Dopodiché il monaco era scomparso. Che dire? Qui ci troviamo di fronte all’irrompere del soprannaturale nella vita ordinaria. Storie simili si sono sentite raccontare anche ai nostri giorni da persone credibili in riferimento a un altro frate che sembrava venuto direttamente dal Medioevo: Padre Pio. Questo miracolo di San Franco ci mostra che il soprannaturale non è lontano da noi, anche se non lo vediamo, come non vediamo l’aria che respiriamo e il sangue che scorre nelle vene

Franco rinuncia ai piaceri che gli avrebbe garantito una tranquilla esistenza di agiato proprietario per inseguire, dapprima in un monastero benedettino, poi in un eremo tra queste nostre montagne, la gioia profonda: pellegrino dell’assoluto, oltre che, come ci suggeriscono questi nostri stupendi scenari, silenzioso cultore della nuda poesia del Creato.

Senza questa “follia”, lucidamente perseguita e così scandalosamente lontana dalla nostra mentalità, non si capirebbe né la vicenda di questo eremita del Gran Sasso, né la santità cristiana che si esprime in ogni tempo e in ogni latitudine.










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